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©annessi Mecci Andrea (roma 2019)

Gian Mario Villalta (morte di Pasolini o di Aldo Moro, caduta del Muro di Berlino?)

di Redazione
Aprile 2023

INTERVISTE www.poetipost68.it
“io custode non di anni ma di attimi”
il collettivo poetipost68 chiede

In che anno della storia del Novecento sei nato? Assume per te un significato privato oltreché pubblico questa data?

Sono nato nel 1959. Non si sa che si nasce, e si comprende di essere nati qualche anno più tardi, quando si è acquisita la facoltà di parlare e – insieme – si è formata la memoria di lungo termine. E poi si cresce nel mondo degli altri, fino a quando l’adolescenza non arriva a sospingerti oltre quello che vagamente credi di essere e di sapere. E poi inizi a interessarti davvero di dove sei nato e quando e da chi. Quello che ti diventa più chiaro è che conta, dopo, quanti anni avevi quando è accaduto questo o quello (morte di Pasolini o di Aldo Moro, caduta del Muro di Berlino?), e quando ti è accaduto questo o quello, a che punto eri della tua vita.

Hai avuto delle madri e dei padri in poesia, o nel corso della tua formazione?

La metafora della parentela poetica andrebbe sviluppata in tutto il suo ventaglio di possibilità. Già “poeta di sette anni” sono stato dato in affidamento a Leopardi e a Pascoli, anni più tardi agli Spagnoli degli anni d’oro, poi, uscendo dall’adolescenza, assegnato alla casa-famiglia anglosassone, avevo come tutor T.S. Eliot; ricordo però che spesso chiedevo asilo agli autori delle lyrics del “progr”, più di altri King Crimson e Genesis; ho incontrato alla soglia dei vent’anni il mio padre biologico, Andrea Zanzotto, proprio mentre ero stato appena adottato da Paul Celan; per non palare degli zii e dei padrini, non pochi, da Bonnefoy a Heaney; e poi vengono i cugini e i fratelli, i fratelli soprattutto e i fratellastri, Stefano Dal Bianco, Mario Benedetti, Antonio Riccardi, Pierluigi Cappello, per esempio. Parentele poetiche. Poi ci sono quelle filosofiche, delle quali qui però non si chiede.

Quale significato attribuisci al termine “anni” nel tuo alfabeto poetico?

Ci sono due dimensioni esistenziali e poetiche per me fondanti: il giorno, inteso come la giornata, il tempo circadiano, come unità emotivo-affettiva, che va da un risveglio all’altro e include il sonno e il sogno; e c’è l’anno, particolarmente significativo alla latitudine dove vivo perché è segnato profondamente dall’avvicendarsi delle stagioni. L’anno umano, con le sue scadenze pubbliche e private, con il suo scivolare da una stagione all’altra (anche con bruschi salti di clima e di umori) ha una circolarità, chiude e riapre; però nel procedere degli anni questo cerchio si mostra piuttosto come una spirale: è il simbolo che ho adottato nel mio ultimo libro, Dove sono gli anni. La spirale, in una forma naturale, quella del nautilus, per esempio, che il libro riporta in copertina, che cos’è? Da un lato una progressione matematica, che segue la successione di Fibonacci, della quale il disegno geometrico mostra questa strana verità: il centro del primo “giro” non corrisponde al punto di origine. Inoltre, in natura, nel nautilus e in altre forme viventi, la parte “morta” e calcificata o diventata legno costituisce la forma che noi conosciamo e riconosciamo, mentre la parte viva e attiva ne è solo una minima porzione, una specie di “fronte” del tempo. Così sono, in un certo senso, gli anni, se consideriamo quelli passati e il presente. Il futuro è solo un’ipotesi, a volte ragionevole (a volte meno) di ciò che è un esile presente e di ciò che è un passato che presente non è, ma dà la forma conosciuta e riconoscibile al vivente. Se parliamo della lingua, se parliamo della poesia, questa spirale-nautilus (di tempo e di vita) non diventa una metafora interessante?

Esiste a tuo avviso un legame tra Poesia e Storia?

La Storia con la s maiuscola è un concetto astratto che si conosce e si discute nel discorso storiografico, e che ha la sua testimonianza nei documenti di vario genere e nel paesaggio, nonché il suo monumento (nel pieno senso etimologico) in molte opere umane. Il vissuto della Storia, l’effetto che sul presente-vivente-fluente (così Husserl) hanno antropologia e abitudini, e loro mutamenti (le “assuefazioni” leopardiane) in relazione agli accadimenti locali e mondiali (di portata economica, sociale, politica, etc.) , tutto questo, insomma, è al vaglio della consapevolezza dell’uomo di oggi come non mai in precedenza, venuto meno l’appello a una dimensione trascendente. Forse anche troppo. Oggi viviamo un’aggressione continua della domanda di senso del mondo che si traduce nel tenace nostro tentativo di restituire un senso alla relazione della nostra vita con un mondo che, fatalmente, diventa troppo pieno. La poesia forse è quel punto (in senso anche geometrico) che, per quante siano le linee della storia che lo attraversano, rimane una pura coordinata spazio-temporale, una voce che, attraversata da un fascio di linee-voci che sono degli “io”, non è più solo un “io” ma quel punto comune a tutte le voci che lo attraversano.

Cosa accade durante la formazione dell’opera in relazione all’Io e all’identità della voce?

L’atto della composizione che ri-crea la lingua in una forma poetica fa sì che abbia luogo una seconda voce (che non è quella propria quotidiana del poeta) ma un senso esposto alla dimensione dell’incontro, al di là della comunicazione intesa nelle sue funzioni e nella sua efficacia di sistema sociale, e là, dove è esposta, attende che a sua volta un altro “io” si protenda, fuori dal sé stesso dicibile nella sua lingua della comunicazione sociale, per una vicinanza che ha a che fare con la mente e con il respiro, con l’istante e con gli anni della vita.

Che significato assume, nel tuo orizzonte culturale e artistico, la parola “generazione/i”? E in che modo l’esperienza personale, privata, biologica, influenza l’idea di “generazione”?

“Generare” è un verbo semanticamente ampio quanto profondo. E la “generazione”, per tornare alla prima domanda, quella sulla parentela, travalica il mero senso della data di nascita. Forse una generazione (non solo in senso artistico) è tale soltanto quando è il frutto di un reciproco riconoscimento (bella parola! Bella catena di parole: riconoscibilità, riconoscere, riconoscenza) e di un racconto che dà a questo riconoscimento i temi e i valori che lo sostengono e lo inverano.

Quale idea hai del concetto di trasmissione e di tradizione? E in cosa consiste il tuo “scarto” rispetto ai modelli poetici e letterari a cui è legata la tua formazione?

La tradizione è eredità. Un’eredità di lingua e di forme l’abbiamo tutti. Poi è necessario riconoscerla. E scegliere. Queste scelte formano la tradizione. Nel mio caso, le scelte obbligate sono state di meno delle scelte facoltative, che sono state davvero molte, ma non meno faticose e sofferte, e tutte queste strade che ho abbandonato hanno a che fare con una presunta idea di dominio della parola poetica, alimentata dalla presunzione di possedere la formula matematica che traduce la lettura della realtà in poesia. La domanda, poi, sui modelli e sullo “scarto”, è insidiosa, perché presuppone a sua volta che io creda di dominare l’intero quadro. Molto invece avviene su un confine dove cerco di capire di più della lingua, della mente, della memoria, con lo studio e con la riflessione, disposto però a lasciarmi portare e/o accogliere nel grande mistero che su quel confine si affaccia. La potrei dire davvero troppo grossa (mi sento, però, in compagnia di Leopardi): accetto la finitezza dell’infinito, ovvero, non mi sconvolge il fatto che il nostro cervello (quello che produce la mente) sia una meravigliosa macchina computazionale; credo che quella mente, che nella voce fa risuonare insieme il corpo e il prodotto del cervello nella lingua umana, sia qualcosa che ha in sé un tempo più profondo di quello cronologico e più ampio di quello individuale, dove l’immaginazione, la fantasia, la ri-creazione del mondo stesso trascendono l’io grammaticale e sociale.

Che funzionamento ha la tua memoria come traduzione, invenzione, rimozione, riconsiderazione – rispetto all’automatismo e al controllo formale del linguaggio?

La memoria di tutti ritiene solo una parte ridottissima del vissuto e la riplasma nel tempo a seconda del mutare dell’esperienza. Questo succede a tutti. Per me, che ci lavoro (in un certo senso), a volte è lo stupore di sentirmi in ostaggio, altre è lo smarrimento di un dono, che può risuonare come verità, e non è detto che non sia doloroso a volte quanto altre felice. La lingua (ancora la lingua) è un fatto che ha in sé la potenza dell’allegoria, cioè di poter significare altro o come altro essere interpretata (automatismo e controllo formale sono gli strumenti imperfetti della comunicazione sociale). La memoria e la lingua sono così intessute che condividono gioie, traumi e degenerazioni patologiche. Non è facile sorprenderle, quando, a tua insaputa, ordiscono traduzioni, invenzioni, rimozioni, ci configurazioni… ma il lavoro necessario a produrre la forma poetica a sua volta mette in campo forze uguali e contrarie, che provengono dalla memoria e dalla lingua medesime.

Quale funzione ha nella tua produzione la prosa (sia essa narrativa, critica e/o teoretica) e quale rapporto intesse con la poesia?

Si impara da tutto, e quindi anche scrivendo (e leggendo) narrativa, critica, estetica. Ma la poesia è un’altra cosa, è più povera, più elementare, più originaria: non ha trama, psicologia, ambientazione; non intrattiene, non illustra, non detta un’etica spendibile in società, né attiva alcuna spendibile didattica. O almeno non dovrebbe. E non puoi soltanto leggerla. Sereni: “La poesia non si legge; con la poesia si convive”.

Quale rapporto ritieni di avere con le nuove generazioni di poeti, e come percepisci le nuove forme di poesia? Puoi descriverci qual è il tuo sentimento del futuro collettivo?

Spero che la sbornia di novità generata dai cosiddetti “social” svapori, e che i nuovi strumenti tecnologici di comunicazione diventino vere facilitazioni alla relazione tra le persone, prima di tutto. Poi: ci sono donne e uomini, poet* più giovani di me, alcune e alcuni molto più giovani, di talento evidente. Faranno, credo e spero, quello che tutti tentiamo di fare e altri hanno tentato di fare in passato: percorre una via di verità, intensità e coraggio. Molti sono anche quelli che cercano scorciatoie, che però – in verità – portano da tutt’altra parte, perché la meta non è il “successo” o l’autoaffermazione (quali, oggi, e quanto miserabili?), ma la gloria, la “gloria della lingua”, sempre quella pantera, quel profumo.

(ph: ©Andrea Annessi Mecci – Roma 2019)