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©andrea Annessi Mecci

memoria

di Mario De Santis
Aprile 2023

La memoria per la poesia è sia deposito (o referente) sia forma di un processo del pensiero e dunque linguaggio. Nel mezzo sta un elemento chiave – la struttura del testo, con le sue misure metriche, l’apparato fonetico – che da sempre, ancora prima della affermazione della scrittura, ma poi per lungo tempo fino a secoli recenti, ne ha consentito la riconoscibilità, la distinzione e la memorizzazione, dunque la fissazione in un’interiorità di coscienza e sentimento (non a caso in francese a memoria si dice par coeur, di cuore).
Non solo, sono proprio la morfologia musicale e la struttura regolare (ad esempio, per l’aerea euro-occidentale moderna, il sonetto) gli elementi chiave che trasmettono la variazione rispetto alla norma del discorso comune ai centri cerebrali, marcando le parole di un significato, connettendo a emozione immagine e contribuendo a stratificare la sostanza della coscienza. E’ così che si garantisce la permanenza nella memoria, continuando ad agire nella rammemorazione.
Quel che è successo nel ‘900 sembra però andare in un altro senso: rotte tutte le strutture-gabbia già dall’800, il flusso di versi liberi, fino agli estremi tipografici delle avanguardie, ha prodotto una poesia che se da una lato scava nei processi della psiche (l’inconscio come un linguaggio, dice Lacan da Freud e l’inconscio è una sub-memoria) con più cognizione grazie alle scoperte psicoanalitiche, dall’altro lascia agire il testo forse in maniera predominante sullo scarto morfosintattico tipografico, sulla pagina, restituendo certo la complessità dei processi e flussi di coscienza nella scrittura (pensiamo in area italiana a Zanzotto, al petèl ecc), ma indebolendo la possibilità di poter mandare a memoria la poesia per i lettori.
Un altro indebolimento è venuto dal cambio culturale della pedagogia con gli studenti liberi dagli obblighi di imparare a memoria la brutta 5 Maggio di Manzoni, i quali tuttavia perdono il deposito di memoria del patrimonio poetico. (Pensiamo a questo aspetto della memoria a un poeta come Mandel’stam, i cui versi – musicali, non avanguardistici – furono custoditi mnemonicamente da sua moglie Nazedna e da Anna Achmatova).
L’aspetto scolastico è un passaggio chiave per la presenza (anzi la scomparsa) della poesia nella società, per questo sono partito da questo aspetto. Fu uno dei tanti equivoci di un certo radicalismo movimentista politico ‘68 e ‘77 , a favore del “minestrone” spontaneista di Castelporziano, che guarda caso tanto somiglia alla poesia instagrammata di oggi.
La memoria – e il sentimento del tempo che la dispiega – sono stati più in generale un tema costante di tutto il secolo, da Ungaretti a Giudici e Sereni, fino ad Anedda e oltre, fino a noi contemporanei, ed è uno dei temi importanti della discussione che stiamo facendo con il collettivo poetipost68. Determinante è il sentire la necessità di un confronto con la grande Historiae, volendo usare il titolo di Anedda. La stessa esigenza continua oggi: Dove sono gli anni di Villata o il recentissimo Autoritratto automatico di Fiori. La storia e la sua memoria (ma anche rimozione) sono un elemento determinante della formazione di una coscienza. Starei per dire che anche questo è Laborintus dell’Io, per citare un libro emblematico non riferibile alla poesia lirica, sebbene Sanguineti pensi più a una dimensione collettiva tra fenomeno di coscienza di massa e substrato ctonio della psiche.
Anche dove si scopra dissolto in non-io o anti-io, oppure indaghi i processi di costruzione mentale del pensiero, architettura concettuale, come in tutta la poesia di Magrelli, l’allusione è alla memoria come deposito di esperienze, eventi, ricordi se pure trasformati in flusso inconscio. Proprio Magrelli in un libro poetico scritto in prosa, Geologia di un padre, ci ha fornito un esempio luminoso di come i poeti ancora una volta siano capaci di esprimere non solo la necessità di una ricostruzione (e una restituzione ) della memoria, ma anche trovare la giusta misura metaforica. Una allegoria geologica che va anche oltre il dato personale e coglie la necessità di collegare la carta al territorio e di conseguenza all’ambiente, oltre che le tracce socio-storiche (diversi temi memoriali sono anche nel recente Exfanzia).
Insomma, il compito della poesia di fronte alla memoria segue molte strade, non solo e non necessariamente quella della memoria storica, sebbene questo al di là dei versi resti per molti poeti (e noi tra questi) un dovere, una necessità che sentiamo – in fondo come cittadini non solo poeti – indebolita in anni recenti. La sentiamo anche riconsiderando in modo più meditato la tradizione stessa della poesia, cercando in essa nuovi riferimenti.
Se però seguiamo i poeti nel loro ripensare la memoria profonda di una coscienza individuale e collettiva forse è proprio all’elemento “spaziale” che possiamo guardare, come metafora. La diffusione maggiore di una conoscenza scientifica (pensiamo ai libri di Carlo Rovelli che parlano delle ultime scoperte della fisica quantistica e della relatività, dei buchi neri o bianchi ecc.) offre ancora ai poeti la possibilità di trovare altre metafore e altre forme di scrittura, magari certo non necessariamente “versi”, che si confrontino con la coscienza del tempo, posti di fronte alla conoscenza di una diversa struttura della materia, che ci dà altre e vertiginose idee di cosa sia la categoria del “tempo” e che in qualche modo si riversa su quello che abbiamo chiamato sentimento della durata.
Bisognerebbe lasciare indietro certi modi di pensare solo umanistici. Sarebbe necessaria una sorta di rivoluzione, simile a quel che accadde nella Vienna di inizio ‘900 proprio in connessione con le teorie fisiche di Heisenberg e Einstein, da poco diffuse, che influenzarono una rivoluzione spirituale, filosofica e artistica.
Proprio la scienza ci offre anche una rilettura sul piano spaziale e ambientale, paesaggistico se vogliamo, che mi permetto di riassumere con un aforisma: Dietro il paesaggio c’è l’antropocene.
Anche qui un tema del tempo, certo in termini più di suggestione simbolica, riferibile alla memoria: futuro e passato si intrecciano, perché c’è la necessità conservativa di tutela del patrimonio di ricchezza naturale (in qualche modo è un ritorno a dimensioni passate, più naturali delle nostre vite), ma che è l’unica arma per garantirci un futuro di specie (occhi puntati sul 2050).

Vorrei citare qui, anche a proposito di questo tema, il lavoro di alcuni componenti del collettivo, non per auto-celebrazione ma per evidenziare un sentire comune che si offre all’esterno per una discussione.
Proprio sul versante futuro/passato in una dimensione del paesaggio (in virtù della prossimità con il suo maestro Zanzotto) è in arrivo il nuovo libro di Giovanna Frene già dal titolo emblematico: Eredità e estinzione (abbiamo un’anticipazione sul sito, MATTATOIO H.G. in cui il presente è stritolato da un continuo “ritornare” indietro del tempo delle lancette della storia).
Questo è un punto importante proprio per il senso di storicità anche politica, collettiva: ci è difficile “l’Utopia” per delusione storica, malinconia di un passato fallito, ma siamo ossessionati da tempo in scadenza: dall’agenda climatica che guarda al 2050 ai piani di rinnovamento economico governativo. Siamo ossessionati da date-limite, da allarmi per il futuro prossimo, mentre nel frattempo ci mangiamo e consumiamo tutto il presente possibile : All you can eat è l’arguto e ironico libro recente di Lidia Riviello che proprio ai tempi dell’estinzione, nel tempo del “capitalocene” dedica diversi testi descrivendo il “bolo” globale in cui alla fine l’occidente sta mangiando sé stesso. Abbiamo utopie tascabili, ma ci manca la spinta proiettiva e biologica verso il futuro. Forse dobbiamo vomitare prima.
Nei risultati di scoperte e conoscenze nei campi ambientali, fisici, di archeo-antropologia, biologia, con lo studio dell’evoluzione della vita sul pianeta, emerge come la specie umana, di cui il Sapiens è la frangia ultima, esiste concretamente la probabilità scientifica di estinzione di specie. Le centinaia di migliaia di anni di attività del Sapiens hanno stratificato una memoria profonda ma anche molto relativa, fragile e arrogante al tempo stesso. Si sente la necessità di un ripensamento radicale.
Cito qui un altro poeta del collettivo, Guido Mattia Gallerani con I popoli scomparsi di sorta di Spoon River della specie Sapiens, con i tanti differenti “popoli” che l’hanno composta e che sono estinti, sul pianeta qui metaforicamente preludio a una scomparsa totale dell’umano sul pianeta terra.
Mentre sul piano storico e biografico insieme, tra implicazioni collettive e tracciabilità dell’esperienza individuale stanno sia Album di Elisa Donzelli con l’intreccio del “fatto privato” con la grande storia recente, in stratificazione (in “2 agosto 1990” ad esempio sia l’invasione del Kuwait che il decimo anniversario della Strage di bologna) che Ballate di Lagosta di Christian Sinicco, che ingloba il confronto memoriale proprio con quella di un’alterità prossima, collettiva, del mondo balcanico a cui è prossimo geograficamente il poeta triestino.
poetipost68 tra scrittura e interventi cercherà di ribadire una costellazione di senso da mettere sul tavolo, ad esempio con alcune parole chiave, tra cui “generazione/i” tra le prime, tema che ha molto a che fare (proprio nella strana stasi paralizzante del passaggio al XXI secolo ) con la impossibilità di poter rivendicare una partecipazione attiva alla storia e un certo sentimento di orfanità (e Orfano è il titolo del primo libro di Marco Pelliccioli con i suoi dolorosi e precisi taglienti “cocci di memoria” ). Chi è nato intorno alla metà o fine anni Settanta, maturato negli anni del cosiddetto “dopo-storia”, sente, rispetto a padri e fratelli maggiori, la misura di uno scacco.
Forse questo sentimento riguarda in ogni caso tutti, in una contemporaneità dilatata, tutti noi che abitiamo una post-storia, che confrontiamo con sfide della memoria addirittura globali, con memorie altrui e altri immaginari, altre culture, altri rimossi (pensiamo alle questioni post-coloniali, senza farne un’ossessione di cancellazione, ma proprio di compresenza di emersione di tutto ciò che siamo stati e ancora possiamo essere).
Insomma abbiamo davanti un esteso campo unico del rammemorabile, una massa di informazioni di dati, un “archivio impossibile” che spingerebbe ad abbandonarsi al flusso e al presente. Tuttavia, anche “vivere nel presente” è una forma di cultura ideologica (lo è dagli anni ’90 e sarebbe ora di dare una storicizzazione a questo immenso, immobile, granitico “adesso” che sa di indifferenza o rimozione, ma che non è il nostro). Forse serve reinventare una prospettiva diversa, un orizzonte degli eventi nuovo.
Esiste per noi, singoli individui, la biologia, l’invecchiamento, la precarietà fisica, l’accumulo di gioie e dolori, le perdite, i lutti, le nascite, la prospettiva della morte. Lì ancora possiamo usare come usiamo i calendari, il tempo lineare, ma la memoria, se è storia di tutti, sta anche nello sciame in cui passato e futuro si intrecciano, in un segreto orientarsi nel cielo di tutti quei punti del pulviscolo, in un gesto e uno scatto, nell’improvviso avanzare in un risucchio, tenendosi attorno ad un punto mai fisso.
Qui è la storia da fare. Encore.

ph: ©Andrea Annessi Mecci (Roma 2017)